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Illazioni varie sulle massime di esperienza in Cassazione... PDF Stampa E-mail
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Inviato da Pietro Diaz   
venerdì 19 febbraio 2010
Inferenza...illazione...congettura...presunzione...massima di comune esperienza....parole con poco senso... in Cassazione...

Dubito che Cassazione faccia chiarezza in materia, con la sentenza sotto esposta:

1. anzitutto, che il "criterio di inferenza" o "regola generale" ( cioè il criterio "massimato", vd dopo) si applichi a "casi" "nuovi e diversi" rispetto a quelli che l'avessero generato (con le) dopo la esperienza di essi, è errato:

-poiché, se i casi "nuovi" fossero (casi) "diversi", quel criterio sarebbe inapplicabile, essendo applicabile solo nei casi simili, nell' "insieme situazionale" (ad esempio: concitazione degli scambi commerciali nelle fiere zootecniche), a quelli "genetici", non nei casi "diversi";

- dato che è la esperienza di casi simili, ripetuta nel tempo ed accertante ed assimilante ogni volta (o quasi), i loro "insiemi situazionali", che esprime quel criterio;

1.1 per ciò, la evocazione, in sentenza, di casi "diversi", pone in errore la identificazione del fenomeno;

2. che, poi, quel "criterio di inferenza" nasca "da un processo logico per il quale, date una o più premesse certe e plausibili, è possibile trarre una conclusione di carattere generale, appunto la massima di comune esperienza", moltiplica l'errore:

- giacché, quel "criterio", non nasce da un "processo logico" che poggi su "una o più premesse certe e plausibili", poiché nasce dai "casi", dalla loro osservazione esperienziale (cioè ripetuta), dalla rilevazione e constatazione delle simiglianze dei loro "insiemi situazionali" (come cennavasi),

- simiglianze che, costantemente evenienti e presenti, inducano a ritenere che (esse) siano e saranno, quante volte sia e sarà, il caso (inducono a ritenere, cioè, che sia e sarà la concitazione degli scambi commerciali quante volte siano e saranno le fiere zootecniche);

- inducendo quindi a "catalogarlo", il criterio di inferenza, tra le "massime" (i "resoconti" logici della esperienza, di un caso e di tutti i casi simili), le quali permettono (e impongono, "nel giudiziario"), di ritenere, l'"insieme situazionale" del caso, in tutti gli altri i casi simili,

- permettendo quindi di pensare, e dire processualmente, se sia certo ciò che è (inizialmente) incerto, certo per il criterio di inferenza, certa la sua inferenza (in specie, dalla concitazione degli scambi commerciali in quelle fiere, che l'assegno, ogni assegno, lì offerto, sia senz'altro accettato);

3. per cui il "processo logico" da "premesse certe e plausibili" non è quello che genera la "massima di comune esperienza" (generata bensì, cennavasi, dalla esperienza, la quale semmai si addentra in un suo processo logico, di catalogazione dei risultati, e di loro massimazione, se simili, in tutti, o quasi, i casi),

- ma è quello che assiste la inferenza, da "premesse certe e plausibili" (che contengano il caso), della verità o falsità, (o della verosimiglianza o inverosimiglianza), della "automaticità" dello scambio dell'assegno (in specie, il processo logico che assiste la inferenza il cui tema basa la difesa dell'imputato, di avere ricevuto l'assegno illecito senza dolo, "in buona fede"...);

4. è per tali errori, sintomi di disordine concettuale, che la sentenza può obbiettare che sarebbe "mera illazione quella proposta dalla difesa":

-ogni inferenza, che sia basata su un (qualunque) criterio, è "illazione", è "illativa", cioè adduttiva (bene o male) di alcunché;

-e in quanto basata su un criterio;

-inferenza (o illazione, sinonimiche dunque) "mera" (poiché appunto non impiegante altro che esso);

5. ed è per quest'altro errore, che la sentenza può supporre, da un lato, che la "illazione" (o la inferenza) siano la "massima di comune esperienza", o "la pretesa regola generale carente....":

-giacché, esse, non sono affatto, non sono mai, queste, sono sempre, e solo, l'atto logico, euristico (l'atto che va in cerca di qualcosa che non ha ancora trovato e che sa che, o non sa se, troverà) che evolve "salendo" sulla "massima di esperienza", la quale, quindi, è il "veicolo" del quale l'atto si avvale, non esso;

6. ed è per quest'altro errore che la sentenza suppone che la massima di esperienza, o "regola generale", possa essere "carente di qualsivoglia attendibilità e riscontro pratico", possa essere "ipotesi insuscettibile di qualsiasi verifica empirica":

-tali, di fatti, possono essere, soltanto, la inferenza o la illazione che abbiano a veicolo un criterio "mero", non un criterio "massimato", una "massima di esperienza", che, se effettivamente tale, è necessariamente "attendibile", perché premunitasi, geneticamente ed evolutivamente, di costante "riscontro pratico", prima della applicazione,

6.1 la sentenza che non avesse sofferto disordine concettuale, cioè, disattendendo la illazione (o inferenza) difensiva, avrebbe dovuto dire (solo) che, essa, era mancante, sprovvista, di massima di esperienza;

- ed anzi, quando questa fosse "insuscettibile di qualsiasi verifica empirica", la quale inizia con la prima ripetizione di una osservazione simile in un secondo caso simile, sarebbe del tutto sterile, incapace di "concepire" e (iniziare a) gestare una massima di esperienza;

7. ed è per quest'altro errore che la sentenza, in pieno disordine concettuale, suppone che: " il caso in esame...non può rappresentare una massima di esperienza...": sottintendendo che, un altro caso, potrebbe "rappresentar"la, cioè, che il seme potrebbe essere (sarebbe) il frutto!;

7.1 e può inoltre supporre che, il caso che non possa "rappresentare una massima di esperienza", "tanto meno (possa rappresentare) una presunzione fondata sul principio dell' id quod plerumque accidit...":

- cosicché, presunzione e principio, costituirebbero un supercriterio, di inferenza o di illazione, una supermassima:

- mentre essi, iscrivendosi nel genere dei criteri inferenziali, stanno tra le specie inferiori, quelle ad esperienza limitata, perché a costanza limitata, della osservazione dei casi simili, che (non costantemente ma) solo per lo più, incostantemente, accadono (con ciò, al disordine concettuale segue quello linguistico, e perfino, interpretativo di una parola piana (benché latina): plerumque (il più delle volte);

8. e per accumulo di quest'altro errore, la sentenza parrebbe disgiungere (fin dalla particella: "né varrebbe ipotizzare la configurazione di una presunzione") la materia delle massime di esperienza da quella della "presunzione", da un fatto (la concitazione degli scambi nelle fiere zootecniche) di un altro ( l'assenza di dolo o "buona fede" nella ricezione dell'assegno); presunzione che potrebbe: "risalire ad un fatto ignoto partendo dalla conoscenza di ciò che è notorio" (secondo l'id quod plerumque)"; mentre:

"si è qui in presenza di una semplice congettura..(che) si risolverebbe in una praesumptio de praesumpto ..che consiste nell'evincere un fatto ignoto da un fatto a sua volta incerto..." e "come è ben noto vige il divieto della c.d. presunzione di secondo grado..implicito nel precetto di cui all'art. 192 comma 2 c.p.p...."

8.1 già la denominazione del "fatto noto" (base della "presunzione"), come "fatto notorio": il primo è noto se processualmente provato, il secondo è noto anche se non provato, perché (comunemente) manifesto (il terremoto a L'Aquila), così che il primo eget probationem, il secondo non eget probationem ...), depista la sentenza...

- ed esasperandone il disordine concettuale, la induce ad opporre, dopo la illazione alla inferenza (vd sopra 4.) , all'una e all'altra la "congettura", che in vece è sinonimo dell'una e dell'altra, se, come l'una e l'altra, da un fatto supposto (anche non certo) porta ad un altro (anche non trovando o trovabile), mediante un criterio "mero" (vd sopra 6. ) od un criterio "massimato" (per esperienza ),

-e inoltre, disgiunto questo dalla "presunzione" (vd 8), dalla desunzione in art. 192.2 c.p.p, la induce a rimetterla al "criterio mero", con effetti, sulla ricerca del fatto ignoto e sulla "veritatività" di questo, dalla pericolosità o dannosità incalcolabili;

- conducendola inoltre a non vedere che non si ha massima di esperienza che non abbia a base "fatto certo" (perché osservato esperienzialmente, ripetutamente assimilato nell'"insieme situazionale", "massimato" come tale); essendo il fatto incerto esperienzialmente "inesistente", immassimabile.

-tanto che con massime di esperienza si "presume" (o desume) sempre "in primo grado", non può presumersi in tal grado senza esse, non può presumersi in "secondo grado" con esse;

9. e purtroppo, sulla disgiunzione della "desunzione" in art. 192.2 cit. dal criterio "massimato", dalla massima di esperienza ( e dalla sua potenza "euristica" ), sulla sua consegna al criterio "mero", è inscenata, ogni giorno giudiziario, dal procuratore dell'accusa e dal giudice (concordi), la sopraffazione della difesa dell'innocente.

Pietro Diaz

Manifesta illogicità e carenza della motivazione della sentenza se fondata su errati criteri inferenziali (le famose seghe mentali)

Sezione seconda, sentenza n. 44048/09; depositata il 18 novembre

Con la sentenza n. 44048/09 la Seconda Sezione Penale della Corte di Cassazione insiste sull’importanza e sulla distinzione degli elementi determinanti il ragionamento inferenziale, posto a base della decisione di merito. Il principio, in virtù del quale l’uso di non corretti criteri inferenziali rende illogica e carente la motivazione del provvedimento, viene sancito nell’ambito di un processo avente ad oggetto il delitto di ricettazione di un assegno bancario di provenienza furtiva. Nel caso di specie, alla pronuncia di primo grado di condanna per il reato suddetto, seguiva l’assoluzione da parte dei giudici di seconde cure perché il fatto non costituiva reato sulla base della versione difensiva esplicitata dall’imputato-appellante. In particolare, la parte dichiarava di aver ricevuto l’assegno, post datato, da uno sconosciuto durante una fiera zootecnica, asserendo che la mancata verifica in ordine all’attendibilità del titolo di pagamento era dipesa dalla foga propria delle trattative che solitamente si svolgono in tali fiere. Altresì, a sostegno della propria innocenza, l’appellante sosteneva la sua buona fede per aver successivamente dato l’assegno de quo in pagamento a titolo di canoni arretrati, atteso che il locatore dell’appartamento in cui abitava avrebbe facilmente preteso il rimborso dello stesso. Il Procuratore Generale competente ricorreva per cassazione sulla base di due motivi, chiedendo l’annullamento della sentenza impugnata. Con la prima censura, si lamentava l’inosservanza e l’erronea applicazione degli articoli 43 e 648 c.p., disciplinanti rispettivamente l’elemento psicologico del reato - il dolo, in questo caso - e il reato di ricettazione. Il P.G. sottolineava la trascuratezza dei giudici di gravame in ordine alla configurabilità del dolo nel caso in esame. Invero, sulla scia di un costante orientamento giurisprudenziale, nel delitto di ricettazione la prova dell’elemento soggettivo può essere raggiunta anche sulla base dell’omessa o non attendibile indicazione della provenienza della cosa ricevuta, la quale è sicuramente rivelatrice della volontà di occultamento, logicamente spiegabile con un acquisto in male fede. Ne consegue l’applicazione di un siffatto insegnamento al caso di specie, laddove l’imputato aveva ricevuto l’assegno da un soggetto sconosciuto e di cui non si era neppure fatto lasciare una copia del documento di riconoscimento. Con il secondo motivo, veniva censurata la decisione della Corte di merito per aver dato credito, sulla base di argomentazioni assolutamente astratte e prive di qualsivoglia attendibilità, alla tesi del carattere concitato delle trattative svolgentisi presso le fiere zootecniche. Nondimeno, veniva rilevato il vantaggio, seppur indiretto, per l’imputato derivante dalla consegna di un assegno falso al proprio locatore, in considerazione della dilazione di pagamento dei canoni locativi che nel frattempo avrebbe ottenuto. Anche la seconda doglianza a fondamento del ricorso trova accoglimento, in virtù del rilievo che non può di certo essere considerata massima di comune esperienza la natura concitata e frettolosa delle trattative presso i mercati zootecnici, tali da impedire un minimo di cautela a fronte di un pagamento effettuato da uno sconosciuto. Gli ermellini precisano che le massime di esperienza sono definizioni di contenuto generale ed autonome dal caso concreto sul quale il giudice è chiamato pronunciarsi. In altri termini, esse si risolvono in giudizi ipotetici, acquisiti con l’esperienza ed utilizzabili come criterio di inferenza, ossia quale regola generale valevole per nuovi e diversi casi rispetto a quelli dai quali è stata dedotta. Essa nasce dunque da un processo logico per il quale, data una o più premesse certe e plausibili, è possibile trarre una conclusione di carattere generale, appunto la massima di comune esperienza. Viceversa, costituisce una mera illazione la pretesa regola generale carente di qualsivoglia attendibilità e riscontro pratico, nonché l’ipotesi insuscettibile di verifica empirica. Invero, il caso in esame, alla luce dei presupposti sui quali è basato, non può rappresentare né una massima di esperienza, né tantomeno una presunzione fondata sul principio dell’id quod plerumque accidit, in virtù del quale è possibile risalire ad un fatto ignoto partendo dalla conoscenza di ciò che è notorio, è quindi dotato di un grado di certezza tale da apparire indubitabile; bensì, siamo qui in presenza di una semplice congettura. La Corte Suprema aggiunge che né varrebbe ipotizzare la configurazione di una presunzione, poiché essa si risolverebbe in una praesumptio de praesumpto, che consiste nell’evincere un fatto ignoto (in tal caso, la buona fede dell’imputato nel ricevere il titolo di provenienza furtiva) da un fatto a sua volta incerto (ovvero la natura concitata delle trattative nelle fiere zootecniche). Come è ben noto, vige il divieto della c.d. presunzione di secondo grado, stante - a detta della Corte - la necessarietà ed inderogabilità della certezza del fatto sulla base del quale viene postulata la verifica processuale in ordine all’esistenza del fatto stesso. “Ne consegue che il giudice, il quale può partire da un fatto noto per risalire da questo ad un fatto ignoto, non può in alcun caso porre quest’ultimo come fonte di un’ulteriore presunzione in base alla quale motivare una pronuncia di condanna”. Del resto, tale divieto è implicito nel precetto di cui all’articolo 192, comma 2, c.p.p., ai sensi del quale “l’esistenza di un fatto non può essere desunta da indizi a meno che questi siano gravi, precisi e concordanti”. Ne deriva, pertanto, l’annullamento della sentenza impugnata sotto il profilo dell’inosservanza dei canoni logici che presiedono alla formazione del ragionamento probatorio.
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